“Canto di me stesso” di Walt Whitman (Strofa 6)
Che cos’è l’erba? Mi chiese un bambino, portandomene a piene mani;
Come potevo rispondergli? Non so meglio di lui che cosa sia.
Suppongo che sia lo stendardo della mia vocazione, fatto col verde tessuto della speranza.
O forse è il fazzoletto del Signore,
Un ricordo profumato lasciato cadere di proposito,
Con la cifra del proprietario in un angolo sicché possiamo vederla e domandarci di Chi può essere?
O forse l’erba stessa è un bambino, il bimbo generato dalla vegetazione.
O un geroglifico uniforme
Che voglia dire, crescendo tanto in ampi spazi che in strette fasce di terra,
Fra bianchi e gente di colore, Canachi, Virginiani, Membri del Congresso, gente comune, io do loro la stessa cosa e li accolgo nello stesso modo.
E ora mi appare come la bella capigliatura delle tombe.
Ti userò con gentilezza, erba ricciuta,
Forse traspiri dal petto di giovani uomini,
Che avrei potuto amare, se li avessi conosciuti,
Forse provieni da vecchi, o da figli ghermiti appena fuori dai ventri materni,
Ed ecco, sei tu il ventre materno.
Quest’erba è troppo scura per uscire dal bianco capo delle nonne,
Più scura della barba scolorita dei vecchi,
È scura per spuntare dal roseo palato delle bocche.
Oh nonostante tutto io sento il parlottio di tante lingue,
E comprendo che non esce dalle bocche per nulla.
Vorrei poter tradurre gli accenni ai giovani morti, alle fanciulle,
Gli accenni ai vecchi e alle madri, ai rampolli ghermiti ai loro ventri.
Che cosa pensate sia avvenuto dei giovani e dei vecchi?
E che cosa pensate sia avvenuto delle madri e dei figli?
Vivono e stanno bene in qualche luogo,
Il più minuscolo germoglio ci dimostra che in realtà non vi è morte,
E che se mai c’è stata conduceva alla vita, e non aspetta il termine per arrestarla,
E che cessò nell’istante in cui la vita apparve.
Tutto continua e tutto si estende, niente si annienta,
E il morire è diverso da ciò che tutti suppongono, e ben più fortunato.