Da Eugenio Montale a Pablo Neruda, ecco alcune delle poesie più famose e dei versi più belli dedicati ai cani.
I cani sono sempre di più parte integrante delle nostre vite e per alcuni gli amici a quattro zampe diventano membri della famiglia a tutti gli effetti. Nel tempo i poeti hanno dedicato a Fido versi e pensieri, esaltandone carattere gioioso, fedeltà, empatia e capacità di farsi amare. Andiamo, allora, a scoprire insieme alcune delle poesie più famose dedicate ai cani.
Poesie più famose sui cani
“Nei miei primi anni abitavo al terzo piano” di Eugenio Montale
Nei miei primi anni abitavo al terzo piano
e dal fondo del viale di pitòsfori
il cagnetto Galiffa mi vedeva
e a grandi salti dalla scala a chiocciola
mi raggiungeva.. Ora non ricordo se morì in casa nostra e se fu seppellito e dove e quando.
Nella memoria resta solo quel balzo e quel guaito né
molto di più rimane dei grandi amori
quando non siano disperazione e morte.
Ma questo non fu il caso del bastardino
di lunghe orecchie che portava un nome
inventato dal figlio del fattore mio coetaneo e analfabeta,
vivo meno del cane, e strano, nella mia insonnia.
“Ode al cane” di Pablo Neruda
Il cane mi domanda
e non rispondo.
Salta, corre pei campi e mi domanda
senza parlare e i suoi occhi
sono due richieste umide, due fiamme
liquide che interrogano
e io non rispondo, non rispondo perché
non so, non posso dir nulla.
In campo aperto andiamo
uomo e cane.
Brillano le foglie come
se qualcuno le avesse baciate
a una a una,
sorgono dal suolo
tutte le arance
a collocare
piccoli planetari
su alberi rotondi
come la notte, e verdi,
e noi, uomo e cane, andiamo
a fiutare il mondo, a scuotere il trifoglio,
nella campagna cilena,
fra le limpide dita di settembre.
Il cane si ferma,
insegue le api,
salta l’acqua trepida,
ascolta lontanissimi
latrati, orina sopra un sasso,
e mi porta la punta del suo muso,
a me, come un regalo.
È la sua freschezza affettuosa,
la comunicazione del suo affetto,
e proprio lì mi chiese
con i suoi due occhi,
perché è giorno, perché verrà la notte,
perché la primavera
non portò nella sua canestra
nulla
per i cani randagi, tranne inutili fiori,
fiori, fiori e fiori.
E così m’interroga
il cane
e io non rispondo.
Andiamo
uomo e cane uniti
dal mattino verde,
dall’incitante solitudine vuota nella quale solo noi
esistiamo,
questa unità fra cane con rugiada
e il poeta del bosco,
perché non esiste l’uccello nascosto,
né il fiore segreto,
ma solo trilli e profumi
per i due compagni:
un mondo inumidito
dalle distillazioni della notte,
una galleria verde e poi un gran prato,
una raffica di vento aranciato,
il sussurro delle radici,
la vita che procede,
e l’antica amicizia,
la felicità
d’essere cane e d’essere uomo
trasformata
in un solo animale
che cammina muovendo
sei zampe
e una coda
con rugiada.
“Il cane” di Aldo Palazzeschi
Molti conosco che non coltivano
eccessiva simpatia per il cane e denunciano per prima cosa
quell'insistente quanto noioso abbaiare.
Ma non è forse il suo linguaggio
che noi
come già quello degli Etruschi,
non riusciamo a comprendere?
Udiste mai per la campagna
durante la notte
quando da un casolare abbaia un cane?
Dai casolari di quella zona
ogni altro si mette ad abbaiare
tanto da lasciar credere
in un impianto telefonico esemplare e incorruttibile.
E non farà lo stesso effetto
il nostro eterno cicalume
a chi nei nostri confronti meglio di noi capisce?
Infatti, se voi mettete un nome al vostro cane
con quello infallibilmente risponde
e quando non risponde v'informerà
con un moto dell'orecchio impercettibile
che ha capito perfettamente
ma che fa finta di non sentire
perché occupato in più importanti faccende.
“Epitaffio per un cane” George Byron
In questo luogo
giacciono i resti di una creatura
che possedette la bellezza
ma non la vanità,
la forza ma non l’arroganza,
il coraggio ma non la ferocia.
E tutte le virtù dell’uomo
senza i suoi vizi.
Quest’elogio, che non sarebbe che vuota lusinga
sulle ceneri di un uomo,
è un omaggio affatto doveroso alla memoria di
“Boatswain”, un cane che nacque in Terranova
nel maggio del 1803
e morì a Newstead Abbey
il 18 novembre 1808.
Quando un fiero figlio dell’uomo al seno della terra fa ritorno,
sconosciuto alla gloria, ma sorretto
da nobili natali,
lo scultore si prodiga a mostrare
il simulacro vuoto del dolore,
e urne istoriate ci rammentano
l’uomo che giace lì sepolto;
e quando ogni cosa si è compiuta
sul sepolcro noi potremo leggere
non chi fu quell’uomo,
ma chi doveva essere.
Ma il misero cane, l’amico più caro in vita,
che per primo saluta
e che difende ultimo,
il cui bel cuore appartiene al suo padrone,
che lotta, respira,
vive e fatica per lui solo,
cade senza onori;
e solo col silenzio
è premiato il suo valore;
e l’anima che fu sua su questa terra
gli vien negata in cielo;
mentre l’uomo, insetto vano,
spera il perdono, e per sé solo
pretende un paradiso intero.
O uomo! flebile inquilino della terra per un’ora,
abietto in servitù, corrotto dal potere,
ti fugge con disgusto chi ti conosce bene,
o vile massa di polvere animata!
L’amore in te è lussuria, l’amicizia truffa,
la parola inganno, il sorriso menzogna!
Vile per natura, nobile sol di nome,
ogni animale ti mette alla vergogna.
O tu, che per caso guardi quest’umile sepolcro,
passa e va’: non è in onore
di creatura degna del tuo pianto.
Esso fu innalzato per segnare
il luogo ove tutto quel che di un amico resta
riposa in pace;
un sol ne conobbi: e qui si giace.