Il blocco Ldc
A lungo, i Paesi meno sviluppati del mondo hanno sempre faticato a far sentire la propria voce a livello internazionale sul tema della crisi climatica. Questo perché si tratta di realtà minuscole e con scarsa rilevanza geopolitica, fattori che impedivano loro di ottenere attenzione e sostegno ai grandi vertici internazionali. Basti pensare a Stati insulari come Tuvalu o Kiribati. Qui, ad esempio, proprio per la posizione geografica e la conformazione territoriale problemi come l’innalzamento dei livelli degli oceani fanno molta più paura.
Per avere più potere negoziale agli appuntamenti come le Cop, è stata costituita un’organizzazione internazionale, l’Ldc Group on Climate Change. I membri in totale sono 46 e sono disseminati un po’ in tutte le aree del mondo, dal Sudest asiatico ai Caraibi passando per l’Africa e alle già citate realtà insulari del Pacifico. In questo modo, si presentano come un blocco unico e compatto per supportare le proprie istanze, senza richiedere l’appoggio delle grandi potenze. Alla Cop26 di Glasgow erano quattro i punti su cui si sono fatti sentire maggiormente. Le vittorie, tuttavia, sono state poche.
Loss and damage
I Paesi Ldc non sono caratterizzati solo da territori fragili, ma anche dall’incapacità di far fronte alle spese per riparare i danni delle calamità naturali e per prepararsi ad affrontare i disastri futuri. Nel primo caso siamo nel campo conosciuto come Loss and damage, letteralmente perdite e danni. Siccome i cambiamenti climatici sono stati innescati dall’inquinamento dai Paesi occidentali a partire dalla rivoluzione industriale, la parte meno sviluppata del mondo chiede ora a quei Paesi dei risarcimenti per le conseguenze che ha subito e continua a subire senza averne responsabilità. In altre parole, se un uragano ha devastato un territorio insulare del Pacifico, questo deve ricevere un sostegno economico adeguato dai Paesi più ricchi. Bell’accordo finale della Cop26 è stata inserita solo la promessa di instaurare dei “dialoghi” sul tema per i prossimi due anni. Con grande rammarico degli Ldc.
Finanza climatica
Oltre ai risarcimenti, i Paesi più deboli chiedono sostegno economico anche per prevenire i disastri del clima. È questo che si intende per finanza climatica: soldi per finanziare la transizione energetica e le opere di mitigazione e adattamento agli effetti della crisi. Nel 2009, i Paesi del G20 avevano deciso di istituire un fondo a favore dei Paesi in via di sviluppo in cui far confluire 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020. L’obiettivo, tuttavia, è stato mancato: ne sono stati versati in media solo 80 miliardi. Con il patto di Glasgow è stato deciso di raddoppiare questo impegno portandolo a 200 miliardi all’anno entro il 2025.