John Keats è stato un grande poeta e da “All’Autunno” a “Endimione” andiamo a scoprire insieme alcune delle sue poesie più belle sulla natura.
John Keats, nato il 31 ottobre 1795 e morto il 23 febbraio 1821, ha dato voce nelle proprie poesie a natura ed emozioni in modo unico. Egli, ritenuto uno dei più grandi poeti del Romanticismo, ha trasformato i suoi versi in una continua ricerca della bellezza, nonché in una profonda riflessione su Vita, Morte e Io. In questo contesto la natura diventa ispirazione, destinataria della contemplazione, e protagonista assoluta dei versi, come se fosse al contempo soggetto e oggetto del canto. Andiamo, allora, a scoprire alcune dei testi più belli a essa dedicati dal poeta.
Le poesie di John Keats sulla natura
“Endimione”
Una cosa bella è una gioia per sempre:
cresce di grazia; mai passerà
nel nulla; ma sempre terrà
una silente pergola per noi, e un sonno
pieno di dolci sogni, e salute, e quieto fiato.
Perciò, ogni mattino, intrecciamo
una catena di fiori per legarci alla terra,
malgrado lo sconforto, il disumano vuoto
d’animi nobili, i giorni tristi,
le perniciose e ottenebrate vie
della nostra ricerca: si, malgrado tutto,
una forma bella il drappo toglie
allo spirito triste. Così sole, luna,
alberi antichi, e nuovi, germoglianti felicità d’ombre
per l’umile gregge; e narcisi
col verde mondo in cui abitano; e chiari ruscelli
che cercano un fresco tetto
contro la torrida stagione; il cespuglio nel bosco,
colla spruzzata di boccioli della bella rosa muscata:
e così anche la magnificenza del destino
che immaginiamo per i morti illustri;
tutti i racconti belli uditi o letti –
una fonte infinita di bevanda immortale,
cola per noi dall’orlo del cielo.
Né queste essenze sentiamo solo
per brev’ora; no, come anche gli alberi
che sussurrano attorno al tempio presto diventano
cari quanto il tempio stesso, così fa la luna,
la poesia passione, le glorie immense,
ossessioni per noi finché non siano lietificante luce
all’anima nostra, e a noi si legano sì forte,
che, sia splendore, o tenebra tetra,
sempre con noi dimorano, o moriamo.
“Fulgida Stella”
Fulgida stella, come tu lo sei
fermo foss'io, però non in solingo
splendore alto sospeso nella notte
con rimosse le palpebre in eterno
a sorvegliare come paziente
ed insonne Romito di natura
le mobili acque in loro puro ufficio
sacerdotale di lavacro intorno
ai lidi umani della terra, oppure
guardar la molle maschera di neve
quando appena coprì monti e pianure.
No, eppure sempre fermo, sempre senza
mutamento sul vago seno in fiore
dell'amor mio, come guanciale; sempre
sentirne il su e giù soave d'onda, sempre
desto in un dolce eccitamento
a udire sempre sempre il suo respiro
attenuato, e così viver sempre,
o se no, venir meno nella morte.
“Per chi a lungo è stato nella città rinchiuso”
Per chi a lungo è stato nella città rinchiuso,
Dolce è la bella guardare e aperta
Faccia del cielo, una preghiera esalare
Nel sorriso schiuso del firmamento azzurro.
E chi più felice, quando con la pace nel cuore
Stanco gli è concesso in un piacevole
Recesso d'erba ondulata leggere una storia
Gentile d'amore e di languore?
Per poi, tornando a casa la sera, l'orecchio
Echeggiante Filomela, l'occhio
Teso alla corsa lucente d'una nube veleggiante,
Rimpiangere la brevità del giorno speso:
Come il passaggio della lacrima d'un angelo
Quando cade per il chiaro etere in silenzio.
“All’Autunno”
Stagione di nebbie e morbida abbondanza,
Tu, intima amica del sole al suo culmine,
Che con lui cospiri per far grevi e benedette d'uva
Le viti appese alle gronde di paglia dei tetti,
Tu che fai piegare sotto le mele gli alberi muscosi del casolare,
E colmi di maturità fino al torsolo ogni frutto;
Tu che gonfi la zucca e arrotondi con un dolce seme
I gusci di nòcciola e ancora fai sbocciare
Fiori tardivi per le api, illudendole
Che i giorni del caldo non finiranno mai
Perché l'estate ha colmato le loro celle viscose:
Chi non ti ha mai vista, immersa nella tua ricchezza?
Può trovarti, a volte, chi ti cerca,
Seduta senza pensieri sull'aia
Coi capelli sollevati dal vaglio del vento,
O sprofondata nel sonno in un solco solo in parte mietuto,
Intontita dalle esalazioni dei papaveri, mentre il tuo falcetto
Risparmia il fascio vicino coi suoi fiori intrecciati.
A volte, come una spigolatrice, tieni ferma
La testa sotto un pesante fardello attraversando un torrente,
O, vicina a un torchio da sidro, con uno sguardo paziente,
Sorvegli per ore lo stillicidio delle ultime gocce.
E i canti di primavera? Dove sono?
Non pensarci, tu, che una tua musica ce l'hai -
Nubi striate fioriscono il giorno che dolcemente muore,
E toccano con rosea tinta le pianure di stoppia:
Allora i moscerini in coro lamentoso, in alto sollevati
Dal vento lieve, o giù lasciati cadere,
Piangono tra i salici del fiume,
E agnelli già adulti belano forte dal baluardo dei colli,
Le cavallette cantano, e con dolci acuti
Il pettirosso zufola dal chiuso del suo giardino:
Si raccolgono le rondini, trillando nei cieli.
“Sul mare”
Di sussurri immortali avvolge lidi desolati
E con ansito possente riempie mille caverne,
Sin che l’incanto d’Ecate non l’avverte
Di ritirarsi, e lasciarle all’ombra sempiterna
Colme di grida. Spesso è così felice
Che la sua calma per giorni e giorni non smuove
la conchiglia caduta, quando i venti del cielo
Liberi infuriano in tempesta cupa.
Oh tu che hai le pupille stanche e afflitte,
Nutrile dell’immensità del mare;
Tu che le orecchie hai stordite di volgare rumore
O troppo sazie di troppo ricche melodie,
Ascolta, sino a trasalire, ciò che dicono le vecchie caverne:
Il coro, sembra, delle antiche ninfe del mare.